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Un’interfaccia tra il cervello e i chip semiconduttori

«Nel 2099 ci troveremo di fronte a una forte interazione tra menti umane e macchine. Chi non si adeguerà non riuscirà a interagire bene con gli altri». È con una citazione dal libro di Ray Kurzweil The Age of Spiritual Machines che Peter Fromherz, direttore del Max Planck Institute for Biochemistry di Monaco, dà inizio alla sua Lectio magistralis Un Interfaccia tra il cervello e i chip semiconduttori, nella sala del Minor Consiglio di Palazzo Ducale: «Quella che oggi è vista come pura fantascienza, un giorno potrebbe essere realtà».

I quarant’anni di carriera del professor Fromherz sono stati rivolti sin dall’inizio a un obiettivo molto chiaro: studiare i fenomeni di microelettronica e microionica e capire i problemi da risolvere per rendere la loro comunicazione utile alla «non disperata impresa» di collegare cervello e semiconduttori. Per questo motivo Fromherz, professore onorario alla Technical University di Monaco, ha ripercorso con la folta platea gli studi effettuati dalla sua equipe, mostrando come le correnti elettriche in un chip possono influenzare le correnti ioniche in un neurone e viceversa. Partendo da questo punto è possibile costruire ibridi di semiconduttori e tessuti cerebrali che presto potrebbero trasformarsi in sensori per farmaci e neuroprotesi.

Inizialmente Fromherz ha ricordato come tutto nasce nel secondo dopo guerra con la scoperta dei transistor, degli impulsi nervosi e della spirale a doppia elica (base della genetica moderna). «Solo partendo da queste scoperte – ha precisato Fromherz – oggi possiamo parlare di semiconduttori, neurodinamica e biologia molecolare».

«In un primo tempo – continua Fromherz – ci sembrava impossibile mettere in relazione elettronica ed elettroionica. Poi abbiamo capito che era necessario interporre una barriera di separazione di ossidi». In questo modo l’equipe del Max Planck Insitute for Biochemistry ha iniziato i propri esperimenti differenziandoli in tre fasi diverse. Nella prima, “Canali unici e chip”, «abbiamo coltivato cellule con canali ionici e transistor, stimolando il ricettore della serotonina per vedere come reagiva la cellula. Gli esperimenti erano fatti a basso voltaggio e con molta cura per evitare di uccidere le cellule».

In una seconda fase, “Neuroni e chip”, gli esperimenti inizialmente hanno riguardato i neuroni di chiocciole e sanguisughe. Poi, però, ci si è accorti che bisognava lavorare su strutture cerebrali più complesse. Così per vedere gli effetti sui mammiferi sono stati condotti ulteriori esperimenti sui neuroni dei ratti (uguali a quelli degli uomini). Con un unico problema: «Questi neuroni – precisa Fromherz – sono più piccoli di quelli umani e quindi più difficili da maneggiare. Queste ricerche sono andate aventi per oltre dieci anni ed è solo grazie agli enormi passi in avanti fatti dalla tecnologia che oggi possiamo registrare cosa succede alle cellule stimolate dai chip».
Nella terza fase, “Cervello e chip”, «abbiamo in un primo momento applicato un chip alla retina di un coniglio. Questa operazione risulta alquanto semplice perché sia la retina che il semiconduttore hanno una forma piatta. Poi siamo passati a una sezione dell’ippocampo applicando un transistor e lasciandolo lavorare per due settimane per vedere come si comportava». I risultati sono stati confortanti al punto che lo stesso Fromherz ha dichiarato che «è stato compiuto il primo passo importante per la realizzazione di interfacce tra chip e cervello».

Quali sono gli sviluppi possibili? «Questi esperimenti – ha concluso Fromherz – potranno portare a un miglioramento nel campo dei biosensori, della ricerca sul cervello, delle neuroprotesi (per esempio per il morbo di Parkinson) e della realizzazione in futuro di neurocomputer».

Genova, 27 ottobre 2009

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